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Immigrazione e quote di ingressi: occorre ripensare il sistema

Ae n.207, settembre 2018

Decreti flussi, permessi di lavoro, sanatorie. I canali legali sono sempre più stretti e costringono i migranti a rotte pericolose.

L’abolizione delle barriere al movimento di persone, servizi e capitali, sancita con l’istituzione della Comunità Economica Europea (1957), ha creato tre categorie di migranti: i cosiddetti “free movers”, ovvero i cittadini di uno Stato membro che si muovono senza vincoli nel territorio dell’Ue creando mobilità interna; i migranti volontari da Paesi terzi, che corrispondono a quelli che oggi chiamiamo più comunemente “migranti economici”; i migranti forzati, a cui corrispondono le persone in cerca di protezione internazionale. Pur non essendo mai stata del tutto cristallina, questa distinzione ha retto fino alle Primavere Arabe del 2011. Da allora, le zone grigie sono diventate evidenti.
Per quanto riguarda il caso italiano, in corrispondenza all’inasprirsi della crisi economica e poi al manifestarsi della “crisi dei rifugiati”, le quote di ingresso per lavoro sono state praticamente azzerate. Anche per chi non fugge da guerre e persecuzioni, ma “semplicemente” dalla povertà o dai cambiamenti climatici che rendono invivibile la vita nei propri Paesi, l’unico modo per avere accesso al nostro Paese è tentare la traversata del Mediterraneo e sperare poi di vedersi riconosciuta almeno una protezione umanitaria da convertire in permesso di lavoro.
Dalla metà degli anni Novanta sono stati introdotti i “decreti flussi” con i quali annualmente il governo stabilisce quanti lavoratori possono entrare. Essere inseriti in questi decreti, e quindi entrare legalmente nel nostro Paese, dipende in gran parte dalla nazionalità degli immigrati (ci sono quote riservate a cittadini di Paesi con i quali sono in essere accordi bilaterali di collaborazione per il controllo dell’immigrazione) e dalla categoria di occupazione. I decreti flussi prevedono una quota massima di ingressi che è quasi sempre stata fin troppo prudente, e dunque molto inferiore alla domanda di lavoratori espressa dalle famiglie e dalle imprese. Il picco degli ingressi autorizzati dal decreto si è avuto nel 2006 e 2007, quando ne sono stati autorizzati 170.000. Normalmente il decreto è stato largamente al di sotto delle 100.000 autorizzazioni all’anno, ma fino al 2008 era ancora mirato principalmente per il lavoro subordinato mentre in seguito il lavoro stagionale è diventato prioritario. L’ultimo decreto flussi, uscito in gennaio, ha autorizzato l’ingresso praticamente solo di lavoratori stagionali (18.000), con l’aggiunta di qualche altra categoria residuale (artisti, lavoratori autonomi, lavoratori di origine italiana dal Sud-America), per un totale di 21.000 persone. Non è comunque scontato che le autorizzazioni si traducano in nuovi ingressi: nel 2016 solo un permesso di soggiorno su tre è stato effettivamente rilasciato, anche a causa delle lentezze burocratiche che, nel caso del lavoro stagionale, rendono inutile il permesso, perché se arriva troppo avanti il periodo della raccolta è già terminato o comunque è già iniziato. Bisogna tuttavia aggiungere che una quota molto rilevante dei permessi di soggiorno dagli anni Novanta fino al 2012 è stata assegnata attraverso le cosiddette sanatorie, ovvero attraverso la regolarizzazione di migranti già presenti sul territorio italiano. Ne sono state promulgate 7 tra il 1986 e il 2012, di cui le ultime due rivolte quasi esclusivamente alle collaboratrici domestiche (colf e badanti). Con questa modalità hanno ottenuto un permesso di soggiorno per lavoro più di 1,8 milioni di immigrati che già lavoravano (se pure in nero) nel nostro Paese.

Questo articolo è stato scritto da Francesca Campomori per la rubrica mensile OCIS all’interno di Altreconomia.

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