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IL PRIMO FESTIVAL BIENNALE SULLA COESIONE SOCIALE

Incubatore Coeso

Per parlare di coesione sociale siamo partiti dalle storie, realizzando una mappatura di buone pratiche, progetti, realtà nati dal basso o dalle istituzioni che raccontano, a volte meglio dei numeri, cosa significa fare coesione sociale in Italia. Abbiamo provato a raccontarle, attraverso interviste, articoli, video e immagini. La sezione è in continuo aggiornamento.

Allattami – La banca del latte umano donato

Allattami – La banca del latte umano donato

Di mamma ce n'è una sola. Ma alle volte ne servono di più.
Il progetto “ALLATTAMI – La Banca del Latte Umano Donato”, nato dalla collaborazione tra il Policlinico di Sant’Orsola e Granarolo, è un’iniziativa senza scopo di lucro che ha l’obiettivo di fornire a neonati critici, soprattutto prematuri, la possibilità di usufruire del latte umano, qualora la loro madre non ne abbia a sufficienza; la scienza ha dimostrato infatti che il latte…

Il progetto “ALLATTAMI – La Banca del Latte Umano Donato”, nato dalla collaborazione tra il Policlinico di Sant’Orsola e Granarolo, è un’iniziativa senza scopo di lucro che ha l’obiettivo di fornire a neonati critici, soprattutto prematuri, la possibilità di usufruire del latte umano, qualora la loro madre non ne abbia a sufficienza; la scienza ha dimostrato infatti che il latte umano aumenta le possibilità di sopravvivenza dei neonati prematuri e ne favorisce l’accrescimento e lo sviluppo.

Ogni anno a Bologna nascono più di 100 bambini con un peso alla nascita inferiore al chilo e mezzo. La sfida che si è posta ALLATTAMI è quella di raccogliere almeno 600 litri di latte umano l’anno da somministrare ai neonati ricoverati nelle terapie intensive neonatali del Policlinico di Sant’Orsola e dell’Ospedale Maggiore.

Tutto il processo è seguito da ALLATTAMI che seleziona le mamme donatrici, ritira il loro latte direttamente a casa, lo pastorizza e conserva in condizioni di massima sicurezza e lo fornisce agli ospedali cittadini.

Scopri di più sul progetto.

 

Murales senza frontiere

Murales senza frontiere

I murales dei bambini che abbattono le frontiere e colorano un mondo migliore
Murales Senza Frontiere è un progetto di promozione sociale promosso dall’organizzazione turca no profit “Her Yerde Sanat” in collaborazione con l’associazione italiana “Circo all’inCirca” di Udine, presente da diverso tempo nel Kurdistan Turco. L’obiettivo è quello di realizzare laboratori d’arte in contesti di disagio urbano, ispirandosi a simboli di pace, tolleranza e rispetto dei diritti umani e scegliendo la creatività…

Murales Senza Frontiere è un progetto di promozione sociale promosso dall’organizzazione turca no profit “Her Yerde Sanat” in collaborazione con l’associazione italiana “Circo all’inCirca” di Udine, presente da diverso tempo nel Kurdistan Turco.

L’obiettivo è quello di realizzare laboratori d’arte in contesti di disagio urbano, ispirandosi a simboli di pace, tolleranza e rispetto dei diritti umani e scegliendo la creatività “come mezzo educativo quotidiano per lo scambio comunicativo”.
L’idea, spiegano i responsabili, si basa sul tentativo di “combattere l’esclusione sociale divenuta un fenomeno sempre più insostenibile soprattutto nei confronti delle nuove generazioni, proponendo diverse attività manuali atte a rivitalizzare gli stimoli comunicativi personali e collettivi”. La realizzazione di un’opera d’arte “pubblica” ha il merito di mettere “tutti nelle condizioni di agire concretamente sul proprio contesto quotidiano facendo acquisire ai giovani e alla popolazione della città una rinnovata consapevolezza delle proprie capacità, smorzando così la mancanza di fiducia in sé e nelle potenzialità del proprio territorio”.

Il progetto è partito in Turchia nel biennio 2014/2015: più di 100 bambini siriani, turchi e kurdi, delle scuole elementari di Mardin hanno partecipato ai laboratori di pittura su pannelli scenografici e alla decorazione di un murales collettivo lungo 50 metri. I disegni realizzati sono stati utilizzati come bozzetti per la composizione del dipinto finale patrocinato dal Museo Archeologico e dalla municipalità di Mardin.
La collaborazione con l’Italia è partita nel 2016, quando è stata coinvolta la scuola primaria Alberto Azzolini di Mirano (Venezia) con lo scopo di sensibilizzare i più piccoli sul tema dei confini: 121 bambini, seguiti dagli artisti David Romanello e Olivera Indjic, hanno decorato 160 metri quadrati di superficie del giardino esterno della scuola.

Il prossimo laboratorio di arte sociale si svolgerà in Nepal presso la Steiner Academy di Kathmandu in collaborazione con Green Farm Movement di Bologna. Quest’ultima sta raccogliendo partecipanti al fine di finanziarne la realizzazione secondo una formula di turismo sostenibile, proponendo un programma multidisciplinare diretto agli alunni e ai viaggiatori, interessati a vivere un’esperienza di arte sociale congiunta.

Visita il sito del progetto e la pagina Facebook del progetto!

 

Obdachlosen – Uni Berlin

Obdachlosen – Uni Berlin

L’Università per i senzatetto che crea cultura e facilita l’inclusione
 La Obdachlosen-Uni Berlin è nata a Berlino nel 2012. L’ideatore è stato Malk Eimertenbrink che, aiutato da un gruppo di docenti volontari,  ha creduto per primo nella possibilità di creare nuove prospettive per le persone che vivono in strada. «A molti dei senzatetto che incontriamo per le strade delle nostre città la carità non basta – ha affermato Eimertenbrink –…

 La Obdachlosen-Uni Berlin è nata a Berlino nel 2012. L’ideatore è stato Malk Eimertenbrink che, aiutato da un gruppo di docenti volontari,  ha creduto per primo nella possibilità di creare nuove prospettive per le persone che vivono in strada. «A molti dei senzatetto che incontriamo per le strade delle nostre città la carità non basta – ha affermato Eimertenbrink – spesso si tratta di persone che vogliono essere messe in discussione ed imparare. Non sono stupidi, hanno molto da offrire».
Le lezioni sono tenute generalmente da volontari e da ex senzatetto e sono di tutti i tipi, dalla cucina alle letture di filosofia, per passare alle lingue straniere, la storia, la matematica, il teatro, la chitarra e la pittura. I corsi sono pensati appositamente per risvegliare nelle persone la curiosità, la passione, l’interesse per qualcosa, fornendo gli strumenti per poter dare una svolta alla loro vita. Tra le storie più interessanti nate dall’esperimento tedesco c’è quella di Klaus: dopo 10 anni vissuti per strada oggi ha una casa, ha smesso di bere e ha iniziato a lavorare come guida turistica a Berlino.

 

VENTO

VENTO

Un progetto di coesione sociale nei panni di una dorsale cicloturistica, raccontato da Camilla Munno e Rossella Moscarelli (gruppo di ricerca VENTO - DAStU – Politecnico di Milano)
Henrique è brasiliano. Ingegnere, è in Italia da 25 anni. Ma non gli basta l’ingegneria. Lo incontriamo a San Benedetto Po, Mantova, durante VENTObiciTour, il grande tour che vuol far conoscere il progetto VENTO al popolo del Po (e non solo). Henrique, non si sa come, ma è finito lì. E ci aspetta perchè nel tempo libero fa la guida…

Henrique è brasiliano. Ingegnere, è in Italia da 25 anni. Ma non gli basta l’ingegneria. Lo incontriamo a San Benedetto Po, Mantova, durante VENTObiciTour, il grande tour che vuol far conoscere il progetto VENTO al popolo del Po (e non solo).

Henrique, non si sa come, ma è finito lì. E ci aspetta perchè nel tempo libero fa la guida turistica. Incredibile ma vero: lui che spiega la bellezza italiana agli italiani. Ci ha visto lungo Henrique perchè secondo lui, come secondo noi, il cicloturismo è una mossa giusta per il riscatto delle aree interne di questo Paese.

Il cicloturismo che VENTO propone e racconta da sette anni è un progetto di territorio che ha fatto della pista cicloturistica che sarà tra VENezia e TOrino, la dorsale di un riscatto sociale, economico e culturale possibili. Una cosa che Gabriele Pasqui chiamerebbe un fascio di azioni, strategie, orientamenti, eventi tra loro connessi e collocati in un campo denso di pratiche sociali e istituzionali (2005). Già perchè nel progetto VENTO c’è una biodiversità di azioni.

C’è ideazione, progettazione tecnica e accompagnamento da parte di una istituzione culturale quale è il Politecnico di Milano.

C’è l’abbraccio dal basso perchè in sette anni oltre 8000 cittadini del Po e non solo hanno aderito e hanno chiesto questo VENTO.

C’è l’interesse diffuso con oltre 200 associazioni che hanno scelto VENTO come progetto che le rappresenta.

C’è che è inclusivo perchè pensato per tutti e non per i già esperti.

Ci sono circa 100 amministrazioni pubbliche che hanno capito che quel filo leggero per turisti lungo 679 km, largo 2,5 metri, pavimentato, sugli argini maestri del Po, fatto di ponti e passerelle sarà la rivoluzione gentile che darà loro un inizio di futuro rianimando le loro attività, le loro economie, le loro bellezze, il loro artigianato.

Aree che si spopolano di ora in ora e a cui nessuno regala un progetto di riscatto di scala vasta, hanno visto in VENTO una possibilità. E a furia di resistere, a furia di scrivere, raccontare, incontrare e progettare (perchè le ciclabili non nascono per caso, ma richiedono abilità tecniche non seconde alle strade), oggi VENTO è entrato nell’agenda di Governo attraverso stanziamenti nelle leggi finanziarie 2016 e 2017. Un tavolo tecnico tra le regioni e il Politecnico di Milano ne lancerà l’intera progettazione entro il 2017. Tra un paio di anni si pedalerà in sicurezza per centinaia di km. L’impossibilità si è sciolta come la neve al sole della volontà collettiva e del progetto per tutti. Se non è un esempio di coesione sociale questo…e per di più a colpi di pedale e paesaggio.

Visita il sito del progetto e la pagina Facebook del progetto!

Slow-Words intervista “QUA – Il Quartiere Bene Comune”

Slow-Words intervista “QUA – Il Quartiere Bene Comune”

a cura di Diana Marrone
Per il nostro ultimo numero in viaggio con le anime migliori dell’#ItaliaCoesa ci spostiamo a Reggio Emilia, provetta europea del welfare 4.0 e della generazione di nuovo capitale sociale per il bene comune. Questa volta lo facciamo raccontandovi cosa si sono inventati grazie agli ‘accordi di cittadinanza’ – con un focus su uno dei progetti realizzati a Cella, Cadè e…

Per il nostro ultimo numero in viaggio con le anime migliori dell’#ItaliaCoesa ci spostiamo a Reggio Emilia, provetta europea del welfare 4.0 e della generazione di nuovo capitale sociale per il bene comune.
Questa volta lo facciamo raccontandovi cosa si sono inventati grazie agli ‘accordi di cittadinanza’ – con un focus su uno dei progetti realizzati a Cella, Cadè e Gaida nato dopo che il Comune ha ascoltato esigenze di residenti, operatori e volontari per soddisfare un bisogno. E li ha coinvolti sia nel colmarlo, sia nel valutarne gli effetti.

I fili avvincenti di questa storia speciale si dipanano grazie a tre voci, consonanti e diverse.

Quella di Aurora Prodi, una giovanissima cittadina ad alta scolarità cresciuta a pane e solidarietà dalla sua famiglia e che insegna proprio a Cadè.

Quella di Elisa Ferretti, architetto di quartiere del Comune di Reggio Emilia – è una giovane esperta di paesaggio, non solo quello fatto di colline e strade ma soprattutto quello di anime.

Ed infine quella di Nicoletta Levi, del Comune di Reggio Emilia, responsabile del progetto ‘QUA – Quartiere Bene Comune‘, arrivata trenta anni fa da Milano.

 

Aurora Prodi
aurora-prodi

 

 

 

 

 

La tua storia in poche righe: la nascita, gli studi, il rapporto con la città dove vivi
Sono nata a Reggio Emilia nel 1991 e qui ho frequentato gli studi al Liceo Matilde di Canossa. Successivamente mi sono laureata all’Università di Bologna in Lingue e Letterature Straniere ed ho vissuto per un anno in Spagna, a Granada, grazie al progetto Erasmus. Ad oggi, sono studentessa del Master Interculturale nel campo della salute, del welfare, del lavoro e dell’integrazione all’Università di Modena e Reggio Emilia. Fin da piccola i miei genitori hanno fatto sì che instaurassi un forte legame con Reggio Emilia, facendomi conoscere le realtà del volontariato, dell’impegno sociale e della cittadinanza attiva. Amo la mia città e mi piace l’idea di fare qualcosa per aiutare chi ci vive. 

Elisa Ferretti
Elisa Ferretti

 

 

 

 


La tua storia in poche righe, fino a quando essa non incontra il Comune più avanzato d’Italia in fatto di welfare ed inclusione sociale (ovviamente Reggio Emilia)

Ho studiato architettura a Firenze per poi specializzarmi in architettura del paesaggio e progettazione dei giardini presso lo stesso ateneo, mentre già lavoravo in uno studio di progettazione del paesaggio a Reggio Emilia. 
Mentre lavoravo, ho sempre continuato a buttarmi in concorsi di progettazione con amici-colleghi e fare volontariato per la Circoscrizione della mia zona, proponendo progetti sulle aree verdi del quartiere – la progettazione è sempre stata una passione ancora prima che un lavoro. Da lì è iniziata una collaborazione con il Comune che va avanti ormai dal 2007 e che è diventata oggi un rapporto di lavoro consolidato, prima sulla pianificazione paesaggistica, poi sulla rigenerazione urbana e oggi sull’innovazione sociale.
Il progetto della Cintura Verde della città, che ho seguito in prima persona dal 2010 al 2015, in quanto progetto di rigenerazione aveva una forte componente di partecipazione/collaborazione con i cittadini e di pensiero progettuale sugli aspetti gestionali, di animazione e uso dei luoghi, prima ancora che sulla loro trasformazione fisica.
Quando è stato ideato il progetto “QUArtiere bene comune” è stato naturale che io fossi coinvolta ed oggi eccomi qui con gli architetti di quartiere a lavorare quotidianamente per attivare, sostenere e “migliorare” il protagonismo dei cittadini nella cura dei beni comuni e della comunità. 

Nicoletta Levi
Nicoletta Levi

 

 

 

 

 


La tua storia in poche righe fino a quando non incontra il Comune di Reggio Emilia e quindi la tua attuale posizione al suo interno

Sono nata a Milano e ho studiato lì, prima al liceo classico e poi all’Università degli Studi. Mi sono laureata la prima volta, a 28 anni, in Lettere Moderne in Statale. La seconda, nel 2010, in scienze della comunicazione. Dopo la prima laurea, ho subito cominciato a lavorare, eravamo nel 1989, poi quando ero già avanti nella mia carriera (e nella mia età) ho deciso di prendere la seconda laurea per mettere a frutto la materia e l’expertise maturate negli anni, irrobustendo la mia preparazione teorica. Ho lavorato 11 anni in un piccolo comune della provincia di Reggio e sette anni in Regione.

Quando vinsi il concorso nel primo Comune, avevo alle spalle un po’ di praticantato in giornalismo. Al lavoro iniziai subito ad occuparmi di ufficio stampa, segreteria del Sindaco ed Affari Istituzionali oltre che ad attivare il primo ufficio di relazione con il pubblico.

Sin da quando ho cominciato a lavorare, ho sempre operato sulle materie che poi sono ancora oggi le mie – quasi un filo rosso in più di venti anni di carriera.
 

 

Aurora, dalla tua esperienza diretta come volontaria (Aurora lavora con l’Associazione Abracadabra tramite l’associazione a cui appartiene, la FILEF di Reggio Emilia) cosa significa rafforzare il legame sociale?
Credo che sostanzialmente significhi creare ponti tra le persone: se è vero che ogni uomo è un’isola, è fondamentale creare relazioni tra i cittadini, per far sì che nessuno si senta perso all’interno di un determinato contesto sociale. Dalla mia esperienza ho imparato che tutti necessitano di sentirsi parte integrante di una comunità che li sostenga ed aiuti a realizzare i propri progetti. Al contrario, la solitudine e l’emarginazione – che comportano la sensazione di non essere presi in considerazione, di essere abbandonati a se’ stessi – creano disagio che si riflette poi non solo sul singolo individuo, ma sulla società tutta.

Ci puoi raccontare di un episodio recente dalla tua pratica al progetto Cadè, che insegna la lingua italiana alle donne straniere di ogni età residenti a Cadè e Gaida?
L’associazione Filef Reggio Emilia da anni si occupa di integrazione ed insegnamento dell’italiano agli stranieri. Ad oggi mi occupo del corso di italiano nella frazione di Cadè, all’interno del progetto “Mamme a scuola”, in collaborazione con Filef ed il Comune di Reggio Emilia. Gli episodi davvero significativi avvenuti durante quest’anno scolastico sarebbero troppi da raccontare: dovendo scegliere, posso riportare il caso di diverse studentesse che da mesi partono da altre frazioni della città per raggiungere la scuola e prendere parte alle lezioni di italiano. Credo che questo sia non soltanto un segnale di forte interesse, ma anche la dimostrazione dell’ardente desiderio da parte delle nostre allieve di imparare e di usufruire dei servizi messi a disposizione dalla città.

Elisa, che significa in pratica fare il tuo lavoro su base quotidiana? Ci racconti una cosa bella capitata di recente? Ed in particolare, mentre hai lavorato agli Accordi di Cittadinanza per le aree più a rischio del comune?
La bellezza di questo lavoro sta tanto nel vedere l’energia e l’entusiasmo che le persone mettono quotidianamente per dare qualcosa alla comunità – il loro tempo, le loro competenze – quanto nel lavorare con loro per costruire cose concrete.
E’ bello quando ti accorgi che interlocutori che fino a quel momento avevano un approccio passivo o conflittuale cambiano il modo di relazionarsi e iniziano a vederti come un partner di lavoro. Questo è avvenuto in tutti i laboratori che abbiamo attivato, direi.
Nelle zone più fragili, laddove magari ci sono episodi di marginalità o difficoltà di integrazione, è bello vedere come i  cittadini attivano processi di inclusione. L’esempio dell’Associazione Abracadabra nella frazione di Cadè è un caso esemplare che riportiamo spesso: le volontarie del doposcuola sono state capaci di leggere il bisogno delle mamme straniere e di proporre una soluzione “nuova” (un corso di lingua per le madri, mentre i bambini sono al doposcuola, nello stesso luogo). E’ stata creata una sinergia che ha determinato il successo del corso di lingua e ha fatto capire ai servizi comunali che si occupano di integrazione la potenzialità di attivare corsi per le donne nelle frazioni (quindi più decentrati e meglio raggiungibili) in sinergia con altri servizi/attività rivolte ai bambini.
Oppure, allo stesso modo, penso ai volontari di un Circolo di quartiere che sono stati capaci di coinvolgere 12 richiedenti asilo nella cura dei beni comuni, vedendoli come persone da inserire nelle reti sociali del quartiere, organizzando perciò non solo momenti di lavoro insieme, ma anche merende e occasioni di pausa per conoscersi meglio tra volontari italiani e stranieri.

Nicoletta, Reggio è la provetta della sperimentazione italiana in fatto di welfare, inclusione sociale e molto altro. E’ dove, spesso, il futuro accade prima che altrove.
In questo quadro, avete creato da ultimo, lo scorso dicembre, accordi di cittadinanza relativi a zone in cui la presenza di stranieri è più alta. Ad esempio, alla scuola primaria di Cadè e con risorse del Comune. Come siete arrivati alla redazione di questo strumento?
Qui più che del progetto specifico, è interessante per me inquadrare l’esperienza (e molte altre simili) all’interno del progetto complessivo.
QUArtiere Bene Comune nasce quando tramontano per legge le circoscrizioni (2015) in tutti i comuni, come Reggio, al di sotto dei 250.000 abitanti.
Le circoscrizioni amministrative erano il trait d’union tra centro e periferia e d’improvviso spariscono. Il progetto nasce da una parte per sostituire al vecchio modello di relazione qualcosa di nuovo che abbini non solo l’obiettivo di mantenere stretto e forte questo legame fra il luogo delle decisioni pubbliche (non tanto il centro ‘geografico’ del territorio ma quello decisionale) ed i territori, ma anche per provare a cogliere questa occasione per valorizzare ulteriormente e quasi, direi, generare nuovo capitale sociale. Siamo a Reggio Emilia e non in qualunque altro luogo d’Italia o del mondo: senza voler fare nessun tipo di competizione, è evidente che questa terra è particolarmente fertile per impiantare pratiche di partecipazione, di coesione sociale, di welfare di terza o quarta generazione se vuoi e, soprattutto, di solidarietà diffusa praticata giorno dopo giorno. Abbiamo diviso idealmente il territorio comunale non più in base ad un’articolazione geografico-amministrativa ma in 19 quartieri che poggiano su una doppia dimensione. Da una parte son luoghi fortemente identitari a cui i cittadini sentono di appartenere storicamente: sono dimensioni geografiche-territoriali molto posizionate negli immaginari e nella ‘pancia’ di chi li abita. Dall’altra questi territori sono anche i luoghi ‘fenomenologici’ dell’accadere, sia pubblico che privato.
Quando un’amministrazione decide di fare qualcosa questa decisione ha una ricaduta sui territori, non resta semplicemente un atto ma diventa un fatto, un servizio, un’opportunità.
Il territorio è il luogo dove ‘accadono’ le decisioni assunte dall’amministrazione ma anche dove ci sono persone che vivono, lavorano, si relazionano, crescono i loro figli o accudiscono  i loro anziani. Quindi la nostra unità di misura è diventata il quartiere (non casualmente il progetto si chiama così) perché ci siamo immaginati che proprio nel quartiere potevano incontrarsi gli obiettivi di valorizzazione del territorio perseguiti dall’amministrazione da una parte e la partecipazione dei cittadini e delle associazioni dall’altra.
Poi abbiamo progettato una partecipazione un po’ diversa sia dai modelli di democrazia rappresentativa sia dalle pratiche di partecipazione e democrazia deliberativa.
Per noi è centrale far partecipare i cittadini, quartiere per quartiere, non solo alla costruzione di una decisione condivisa (per risolvere un problema, per andare incontro ad un’esigenza, etc.) ma anche  coinvolgerli attivamente nella gestione concreta della soluzione immaginata.  Protagonismo e responsabilità civica significano, per il nostro progetto, la capacità di cittadini e associazioni di essere al fianco del Comune in ogni step del ciclo di vita di un progetto, dall’ipotesi alla gestione e fino alla valutazione condivisa dei risultati raggiunti.
Ecco come nascono i progetti come quello di Cella, Cadè e Gaida di cui mi chiedi. In questa metodica di lavoro non è interessante solo l’aspetto di innovazione sociale propria del processo – cioè la partecipazione spalmata lungo tutto l’arco di vita del progetto – ma anche,  proprio in virtù del concetto di  responsabilità civica, la condivisione  con gli stessi cittadini e le loro associazioni delle soluzioni di servizio il che fa diventare  spesso speciale, anche la stessa soluzione, diversa da quelle standard.

Infatti i progetti che animano gli Accordi di cittadinanza si  basano, sempre, su una compartecipazione pubblico/privato: non è solo il Comune a metterci qualcosa, ma anche i cittadini  sono chiamati ad investire quello di cui dispongono, volontariamente: risorse, competenze, tempo, sedi, beni, servizi.

 
Aurora, al di là del tuo impegno con la tua attività di insegnante di italiano per stranieri, cosa dai e cosa prendi dalla tua città?
Sono molto fiera di essere nata in questa città: da Reggio Emilia e dalla sua storia prendo un forte spirito antifascista e antirazzista. Dalla sua gente ho imparato l’arte dell’accoglienza e della tolleranza. Da un po’ di tempo ho deciso di occuparmi del sociale, in particolare dell’aiuto ai cittadini più fragili, e questo è ciò che cerco di donare alla mia città, facendo del mio meglio.

Elisa, a parte essere una figura professionale all’interno della principale amministrazione cittadina, cosa pensi di dare a Reggio e cosa pensi Reggio ti doni, sul piano più personale da semplice cittadina?
Credo di dare quotidianamente il mio impegno per fare Reggio Emilia più bella.
Credo che Reggio mi dia la sensazione rassicurante di avere una casa.

Nicoletta, anche se è difficile scindere il ruolo di dipendente ed il cittadino, cosa pensi che Reggio ti dia e viceversa?
Vuoi dire mettendomi nei panni di una che non fa questo lavoro (ride)?
Non riesco più!
Quello che posso dire è che a me sembra, a livello personale, da immigrata anche io (sono lombarda di nascita e reggiana di adozione) che una delle cose che mi stupì di più nei primi anni che abitavo a Reggio era la sensazione che la città fosse come una casa, un luogo ospitale, tranquillo, comunque famigliare. E che la presenza dell’Amministrazione fosse tangibile, evidente, generalizzata. Notai questa cosa per differenza: a Milano mi sentivo a casa solo se ero a casa e del Comune non mi era capitato di percepirne le attività. Non ero ‘entrata in contatto’.
Oggi, trenta anni dopo, posso dire che quella sensazione era vera e che ha costituito una sorta di filo rosso ancora esistente per cui su quella caratteristica di città lavoro e mi spendo.

 
Aurora, quale esperienza di coesione sociale hai visto fuori dalla tua città e vorresti importare?
Reggio Emilia è una città che, al momento, sta spendendo molte energie in questo campo. Le realtà di volontariato e aiuto reciproco tra cittadini sono moltissime e davvero attive. Ad oggi, non sono venuta a contatto con esperienze di coesione sociale molto diverse da quelle che già troviamo sul nostro territorio, ma di certo ancora molto può essere fatto.

Elisa, una bella esperienza di coesione sociale che hai visto fuori e che importeresti in Italia?
L’esperienza dei jardins partagés di Parigi o degli orti urbani berlinesi, per la loro capacità di produrre bellezza condivisa e “informale” in luoghi marginali e per la capacità delle persone che li animano – pur collaborando con gli enti pubblici – di mantenere uno sguardo lucido e critico nei confronti del soggetto pubblico.
Nella mia esperienza, gli interlocutori o sono soggetti antagonisti – e rifiutano qualsiasi tipo di dialogo e collaborazione – o nel collaborare con l’Amministrazione perdono quello sguardo critico, che credo sia uno degli strumenti fondamentali di controllo e sollecitazione al miglioramento dell’azione pubblica. Non sediamoci!

Nicoletta, un’esperienza di coesione sociale vista altrove che vorresti importare a Reggio?
Seguo con molto interesse il regolamento sui beni comuni del territorio di Bologna. In parte vi abbiamo attinto, sagomandolo sulle caratteristiche peculiari del nostro progetto e di cui ti dicevo prima.
Abbiamo osservato con grande attenzione – e ancora stò osservando con grande attenzione! – le esperienze di innovazione sociale di Milano e di Torino.

 
Elisa, una curiosità: ci descrivi la tua scrivania in questo momento?
Tanti pennarelli, evidenziatori sparsi, cartelle sovrapposte e fogli di “cose da fare” che si accumulano. Bottiglie d’acqua vuote e una pianta di miseria che spezza le linee dure del tavolo.

Nicoletta, ci descrivi la tua scrivania in questo momento?
No, un disastro. Ti manderei una foto via WhatsApp! Accumulo molta carta, c’è un tentativo vago di ordine su un terzo circa di scrivania, negli altri due terzi c’è di tutto, soprattutto confusione di carta, cartelline e blocchi di appunti.

Aurora: un talento che hai uno che ti manca
Un talento, se così si può chiamare, che possiedo, è forse la disponibilità al confronto. Per assurdo, ciò che mi manca, a volte, è la pazienza.

Elisa: un talento che hai uno che ti manca
Ho capacità di sintesi.
Non ho pazienza.

Nicoletta: un talento che hai, uno che ti manca
Non so! Direi che mi mancano molti talenti, in realtà quasi tutti quelli che possono essere immaginabili. Più che un talento, forse ho la volontà di provare ad arrivare comunque dove vorrei arrivare – direi che si chiama testardaggine. Poi può essere che non ci arrivi, ma ci provo quasi a tutti i costi, anche quasi contro me stessa. E qualche volte mi faccio male!

Aurora: cosa hai imparato sin qui dalla vita?
Sono ancora molto giovane, ma fino ad ora, l’insegnamento più grande che la vita mi ha dato è che le persone più fragili sono quelle da cui possiamo imparare di più proprio perché, inizialmente, sono quelle da cui ci aspetteremmo meno. Ho imparato che regalare il proprio tempo agli altri è un piccolo gesto che però la sera mi fa addormentare con un sorriso sulle labbra, nonostante la stanchezza. Perché ho scoperto che aiutare gli altri è il miglior modo per aiutare anche se stessi.

Elisa: che cosa hai imparato sin qui dalla vita?
Che si può continuare a imparare sempre. Ed è una cosa bellissima.

Nicoletta: cosa hai imparato sin qui dalla vita?
Che bisogna dimostrare. Che ci vuole l’onere della prova, nella vita come nel lavoro.

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